di Teresa Sicoli
Il nuovo modo di pensare la politica inevitabilmente è legato al nostro modo di fare una scelta. Tutti ogni giorno facciamo delle scelte. Dove fare la spesa, cosa comprare, raggiungere il posto di lavoro a piedi (se è possibile), in macchina, in treno o in pullman, per poi ancora pensare cosa piace, che scuola scegliere, che lavoro fare o cosa offre il mercato. Scegliere di formare una famiglia. Dove andare a curarsi, con cosa curarsi e dove acquistare le medicine. Scegliere un’alimentazione Bio, sana o un’ alimentazione globalizzata. Curarsi con una medicina alternativa o naturale o assumere farmaci pesanti, o peggio ancora ricorrere, per scelta o per necessità, ad emigrare per curarsi. Per poi finire anche a scegliere chi ci deve rappresentare politicamente e che vogliamo faccia le giuste scelte di indirizzo politico per la nostra vita e tante altre cose ancora. Tutte queste azioni sono politica quotidiana e da quando nasciamo tutto è una scelta. Dalla nascita i nostri genitori o tutori scelgono per noi e al raggiungimento della maggiore età scegliamo noi. In ogni caso, si nasce, si vive e si muore scegliendo. Anche dove vivere e come vivere è una scelta obbligata. La scelta diventa un diktat da quando veniamo al mondo e diventa un obbligo e un diritto-dovere morale, civico, costituzionale, giuridico nonché culturale e sociale. Ma obbligati da chi, da cosa e perché? Rispondere da calabrese non è semplice. Io vivo in Calabria da quando sono nata e ho avuto anche la fortuna di avere la possibilità di fare scelte che non mi hanno fatto abbandonare la mia terra e le mie radici. La Calabria è una terra molto difficile ma allo stesso tempo una terra da amare e da desiderare. Nella consuetudine della gente di Calabria, oggi, si ha la percezione che nella nostra terra non si può più vivere. Questo pensiero risale alla fine degli anni ‘80, e ancor prima quando la Calabria fu una delle prime regioni dell’emigrazione di massa verso il Nord. Un esempio su tutti risale agli anni ’70 quando tutte le famiglie calabresi si sono viste “rubare” i propri figli da una fabbrica di nome FIAT. Oggi stiamo assistendo ad uno spopolamento lento e inesorabile di due generazioni di calabresi che via via scompaiono. L’ agire di rivalsa e di conquista verso altre terre sta diventando per i calabresi giovani e vigorosi e di mente fine (cervelli in fuga) una meta ambita. Trattasi di un fatto sociale abbastanza duro e che ormai ha già preso piede in maniera sconvolgente e disarmante. Molti fatti accaduti e narrati da vari autori testimoniano, dunque, una terra calabra depauperata lentamente da una migrazione variegata. Già nella storia antica accadeva e oggi continua ad accadere.
<I dati statstici mettono in evidenza che nei primi decenni del Regno d’Italia e fino al 1900, più della metà degli espatri è dovuta alle terre del Nord, i numeri lo dimostrano. Considerare dunque l’emigrazione come l’aspetto di un problema che è solo del Mezzoggiorno e non inserirla, invece, in un più ampio contesto italiano, rientra in quella tipica intepretazione del ruolo del fenomeno migratorio nella storia d’Italia che Gabaccia ha definito “semplicistica e limitata”>.[1]
Dopo questa premessa, che non vuole essere esaustiva, di un fenomeno che richiede ulteriore e continua analisi , la mia opinione verte sull’attualità e su cosa davvero si chiede ai calabresi. E se poi vogliamo cambiare direzione, cosa deve fare il popolo calabrese? Anche questa non è una semplice domanda e forse anche un po’ retorica, alla quale, però, non si può rispondere con una risposta netta o breve. Sicuramente , i calabresi non devono tirarsi indietro ed avere il coraggio di affrontare la loro terra come una nuova primavera di rinascita e come fatto sociale di apertura al confronto e al dialogo per poi scegliere di restare. Il dibattito nazionale sociale, politico e culturale ci tira in ballo continuamente ed essendo in tutte le statistiche economiche e socio- culturali sempre fanalino di coda, e oramai da tempo immemore, mi chiedo se ancora abbiamo una scelta oppure la scelta (cioè chi decide per noi) la dovremmo subire a vita. Aprire alla consapevolezza dunque e farsi carico di una responsabilità mi sembra la strada giusta. Passare alla lotta per avere una voce calabrese nel dibattimento nazionale mi sembra ancor più giusto. Le riforme regionali e le autonomie sono azioni e scelte che condizionano la vita di tutti gli italiani e dunque anche dei calabresi. Nel merito con la riforma del Titolo V della Costituzione abbiamo già potuto capire cosa significa in parte l’autonomia. Non sempre, però, la parola autonomia per noi in Calabria è stata ed è sinonimo di equità e giustizia. La Calabria vive da più di 20 anni in un’immobilismo dettato da un sistema politico-clientelare che purtroppo la Calabria non merita, e soprattutto quella Calabria sana che ogni giorno fatica nel portare avanti la laboriosità e la produttività degna di questa terra. Anche le scelte legislative son tutto un divenire di norme e nuovi indirizzi politici, anche escludenti purtroppo, con ampio agire di disparità nella redistribuzione della ricchezza nazionale. Basta leggere e documentarsi per capire il conflitto socio-economico che ha determinato e determina ancora oggi due Italie: quella del Nord e quella del Sud. Questi sono dei fatti e per di più sono già il passato. Per cui, cerchiamo il presente e partiamo da un punto serio, equo e riformatore per dare vita al futuro della nostra terra.
novembre 2019 TS
[1] A.Orlando, Lo sguardo di Clio, Calabria letteraria editrice, Soveria Mannelli,2018 pag.280